Quel duello con Tonkov all’ultimo respiro

Didascalia foto testo finto
di Sergio Neri
Il giorno più sofferto è arrivato a cavallo di due tappe dolomitiche. Quella di Selva e quella di Montecampione. Tappa corta. Cattiva. Salita secca finale ma incapace di consentire a Pantani un’azione demolitrice alla distanza. Zulle aveva tentato un forcing a metà strada. Voleva recuperare se stesso dopo la flessione del giorno prima e forse era lui stesso attonito per l’improvviso rovescio. Si sentiva fortissimo e gli elogi ricevuti a piene mani, strada facendo, l’avevano convinto d’essere davvero l’erede di Indurain. Si fa presto, dalle nostre parti, ad esaltare lo straniero: sembra quasi che taluni si eccitino di piacere quando un rivale d’altra lingua sottomette i migliori o il migliore dei nostri. Vai Zulle, la strada è tua.
E così dopo il forcing, Zulle si ripiega sulla bici e torna negli abissi della corsa mentre davanti si scontrano, secondo copione ormai scontato, Pantani e Tonkov. Il russo mulina le sue gambe senza mostrare in volto il benché minimo segno della sofferenza. Sul suo volto rotondo campeggiano gli zigomi alti che segnalano l’origine mongola della sua famiglia. Gli occhi a fessura non dicono nulla: occhiate taglienti mostrano soltanto, di tanto in tanto a Pantani, la voglia dell’uomo di piazzare la stoccata cattiva. E Pantani viaggia con la consapevolezza di doversi battere all’attacco perché dopo le montagne, il percorso d’un Giro disegnato per tutti meno che per lui, scalatore di razza e di scuola, prevede una crono assassina. Sicché il Giro di Pantani si riduce praticamente alle tre tappe di alta montagna chiuse nella tenaglia di due perfide crono. Quella di Trieste ha premiato più del giusto lo svizzero. Quella di Lugano premierà il russo che adesso, dunque, altri impegni non ha all’infuori d’una attenta difesa della sua posizione in classifica. Pantani non potrà difendere il suo margine lieve nella crono piatta di trentaquattro chilometri da Mendrisio a Lugano. Dunque Pantani va.
Secondo giorno d’altissima montagna. L’ultima salita è il palcoscenico d’uno scontro a due che però non ci consegna il Pantani che volevamo. Il romagnolo attacca. Gli scatti con i quali egli provoca il russo sono i soliti, ripetuti, in progressione. Ma il russo non molla la ruota del romagnolo e Pantani, da parte sua, dà qualche segno d’appesantimento che ci preoccupa non poco. La cima non è lontana e l’assalto perde di metro in metro la sua forza sino a diventare un boomerang sulla testa pelata di Pantani il quale, mettendosi accucciato alla ruota di Tonkov, dichiara praticamente la sua provvisoria resa. L’altro se ne accorge ma non più di tanto.
Al rivale che rinvia la sfida, Tonkov risponde con una pedalata monotona che esprime la sua forza ma che non concede nulla alla gara. Tonkov si accontenta ed è questo il momento preciso nel quale il russo perde il suo Giro d’Italia. Continua con avarizia a pedalare precedendo Pantani e vince la tappa mettendo il rivale alla ruota. Il suo conto torna: quel piccolo margine che la maglia rosa ancora vanta si frantumerà lungo i chilometri della crono. La partita è chiusa. Invece no.

Marco Pantani conquista il suo primo Giro d’Italia
Pantani soffre la tappa corta e brutale di Pampeago ma si carica per la terza frazione che normalmente gli è propizia. Nuova tappa di altissima montagna, tormentata dal Crocedomini e col traguardo posto sulla cima di Montecampione. E’ successo anche l’anno scorso al Tour. Pantani vince all’Alpe d’Huez. Va in crisi nella seconda delle frazioni alpestri (soprattutto per una forte bronchite che lo accompagna), minaccia il ritiro. Siboni lo supplica di restare, resta, e vince la terza delle frazioni di montagna. Sulla cima di Montecampione si ripeterà.
Manderà Zulle in crisi (distacco superiore alla mezz’ora) e attaccherà durissimo Tonkov nella salita finale lavorandolo ai fianchi con una tenacia e una cattiveria tali che alla fine il russo perderà spontaneamente il contatto cedendo al rivale un minuto in poco più di due chilometri .
Il saggio Giorgio Albani che segue Tonkov e lo guarda negli occhi, dice che un solo chilometro in più sarebbe costato al russo altri due minuti. Ecco il Pantani che non conoscevamo. Il Giro ce lo segnala in uno splendore fantastico.
Noi conoscevamo Pantani scalatore, uomo capace di eccezionali imprese sulle salite più aspre e più lunghe del Giro e del Tour. Tanto è vero che alla luce di questa idea, gli stessi corridori lo indicavano prima come corridore di grande valore in salita, ma capace solo di imprese provvisorie, non destinate ad incidere sulla classifica in quanto, tutto sommato, corridore specialista con grandi limiti su terreni diversi da quello alpestre. Dunque grimpeur puro, scalatore capace di fare solo sul suo terreno la differenza. E invece eccolo qua un Pantani nuovo.
Tonkov e Zulle, prima lo svizzero e poi il russo, perdono la partita contro un Pantani che prima di staccarli, li lavora durissimo in salita. Un Pantani che solo alla fine della sua azione costante, micidiale, talvolta persino invisibile, fa la differenza. Ed è questo l’aspetto nuovo del campione, il motivo per il quale adesso possiamo dire d’aver trovato in Pantani il possibile dominatore delle corse a tappe.
Il Giro ci consegna un uomo che ripropone d’impeto il ciclismo vero. Inutile spiegare ancora la differenza tra il ciclismo moderno e il ciclismo antico. La differenza non esiste. C’è solo un ciclismo, al mondo, ed è quello che Pantani ripropone alla gente raccogliendo entusiasmo a valanga. L’altro ciclismo, quello che taluni chiamano moderno, è solo un ciclismo deviato, catturato dagli scienziati (diciamo così) e trasformato in ciclismo da laboratorio, quello dei 50 all’ora costanti, della rotazione delle vittorie, della preparazione esasperata e spesso, ahimé, sconfinata nel sostegno cercato nella chimica più che nell’allenamento.
Grazie a Pantani, al ciclismo interpretato dall’asso romagnolo, grazie alla corsa fondata sui distacchi in salita, ch’egli ha fatto, la gente che ama il ciclismo ha riscoperto in un lampo il suo capitale vero ed ha così torrenzialmente abbracciato il Giro d’Italia, che nei giorni delle Dolomiti la partenza della nazionale di calcio per i mondiali in Francia è passata quasi inosservata. Segno che il ciclismo è ancora in pieno nel cuore di tutti con la sua forza romantica, il suo sentimento e i suoi valori fondati sul coraggio, la fantasia e il sogno del corridore in cerca di fortuna sulla strada della corsa. Semplice.
La crono finale sembra un ostacolo altissimo sulla via di Pantani. Si ha la sensazione che il campione di Cesenatico sia impietosamente condannato a subire l’onta d’una sconfitta scandita dai numeri dopo la grande rappresentazione di forza e di generosità data sulle montagne ma il per corso non lo premia. Andiamo a vederlo la sera della vigilia, dopo aver dettato gli articoli e lo troviamo francamente diverso da quello che raccontavano taluni illustrandolo irto di salitelle e di curve, dunque destinato a spezzare il ritmo di corsa di un uomo regolare e potente come Tonkov e ideale, invece, alla corsa d’assalto di un corridore non specialista come Pantani. Macché. Il percorso viaggia per la prima metà su di una strada grande, spesso diritta e soprattutto in lieve discesa, dunque favorevole ad un uomo potente e regolare nell’azione. La seconda metà è certamente più tortuosa ma che cosa vuoi pretendere da Pantani, il miracolo? Non lo conoscevamo.
Ed anche questa è una novità che il Giro d’Italia, vinto, ci segnala. Oltre ad un Pantani fondista sulle alte salite ed anche combattente di razza su tutti i terreni, anche le salitelle più misere, adesso conosciamo un Pantani capace di caricarsi di rabbia agonistica in misura imprevista e tale da inquietare non poco qualsiasi avversario.
Alla vigilia della crono egli aveva paura di perdere. Ma aveva la consapevolezza di potersi battere alla pari se non meglio per via del suo furore scatenato (ecco il romagnolo di sangue) dalla consapevolezza di dover patire una ingiustizia. Gli bastava una crono più corta e casomai una tappa di salita a metà corsa, per fare selezione e farsi largo in classifica.
Batte Tonkov nella crono inducendo il rivale mal consigliato ad insinuare sorpresa per l’eccezionale colpo realizzato. Finisce male, ahimé, la corsa di Tonkov ma il torto non appartiene al corridore che nonostante il suo carattere estremamente chiuso rivela, invece, una straordinaria sensibilità umana. Il torto appartiene a qualche pessimo consigliere del suo clan. Chiuso. Perdere è sempre un disagio, soprattutto se il rovescio tocca ad un uomo di valore come Tonkov.
E adesso il Tour. Con faciloneria esagerata taluni indicano in Pantani il favorito per la conquista della maglia gialla. A noi sembra ingiusto caricare il romagnolo di tale responsabilità, soprattutto alla vigilia d’un Tour le cui caratteristiche tecniche sembrano fatte per premiare un campione come Ullrich (che non cambieremmo con Pantani neppure se in aggiunta ci dessero una carrettata di miliardi) e anche in considerazione del fatto ch’egli ha speso molto al Giro e moltissimo ha speso quello splendore di squadra che lo ha circondato.
Si è vista la mano calda del vecchio Luciano Pezzi nella solidarietà esistente nel gruppo. Si è visto anche qui il ciclismo vero, quello della leggenda, nel rapporto tra i gregari e il capitano. Erano in corsa tutti per lui ma è solo così che il ciclismo ritrova la sua vena più rigogliosa e più bella. Nelle grandi corse a tappe la forza di una squadra è segnalata da questa grande sintonia tra il capitano e i compagni, nello spirito di “banda” al quale il gruppo si ispira. Peccato che un traditore tempo massimo abbia tolto al simpatico Fontanelli la possibilità di concludere il viaggio in compagnia dei suoi.
Vediamolo al Tour, questo divino Pantani già atteso dai francesi a braccia aperte e lasciamolo realizzare gli esperimenti necessari per essere l’anno prossimo alla partenza col ruolo del grande favorito.
Anche i francesi hanno capito (era ora) che il ciclismo grande lo fanno gli scalatori, lo fanno i distacchi, lo fa la corsa vera interpretata dai massimi di sempre, Bottecchia, Binda, Bartali, Coppi, Bobet, Magni, Robic, Koblet, Kubler, Gaul, Nencini, Gimondi, Merckx. Se recuperiamo queste storie, queste realtà e questi esempi, ritroveremo in un lampo il ciclismo che chiama sulle cime più alte delle corse, sui grandi balconi delle Alpi, centinaia di migliaia di persone.
La grande vittoria di Pantani ha oscurato imprese che meriterebbero un racconto. Ma noi le tratteremo strada facendo, non dimenticheremo piccoli e grandi eroi del Giro perché anche a loro dobbiamo la fortuna di questa corsa nell’anno di grazia in cui, per merito di uno scalatore, tutti hanno capito che la gente non vuole il ciclismo di laboratorio dei 50 orari ma il ciclismo dei distacchi, dell’impresa, del coraggio e della fantasia dell’uomo. Non c’è nessun bisogno di caricare (in tutti i sensi) i corridori per farli andare più forte. Non è questo il problema. C’è solo bisogno di tornare a raccontare ai ragazzi, ai cultori, ai tifosi storie belle e travolgenti come quella di Pantani.
Ma anche come quella di Bartoli, splendido nella sua vena di combattente nato. Di Guerini, un corridore che merita un approfondimento. Di Bettini, grandioso combattente e generoso aiutante del capitano. Ma anche di Magnani, di De Paoli, di Savoldelli. Il Giro ci consegna capitali importanti: tocca a noi gestirli nel rispetto d’un ciclismo del quale Pantani ha segnalato il futuro col recupero impetuoso dello spirito e della leggenda di questo sport.
Il momento è felice.
Ma non perdiamo questo grande treno. I dirigenti, i responsabili delle squadre, gli stessi giornalisti ci riflettano sopra. Un ciclismo così premia anche il lavoro dei cronisti ai quali offre lo spunto per eccezionali racconti di strada e sofferte storie di vita. Torna la grande odissea della bicicletta e noi pensiamo che sia giusto, in questo momento, dire grazie al piccolo, pelato, impetuoso scalatore di Cesenatico il quale, appena tornato nel suo ridente paese, ha espresso un pensiero venato di poesia. La poesia del ciclismo.
«Adesso voglio andare da solo per le mie strade. Voglio godermi la mia vittoria dove l’ho preparata».
Quelle stradine silenziose che si alzano sulle colline del Montefeltro, dipinte da Edoardo Pazzini, malinconiche e dolci come le poesie di Pascoli, stradine che rigano le campagne e passano tra spigoli di rocce accanto al Trebbio, verso i castelli misteriosi dei Malatesta, sotto San Marino, sul dorso di San Leo, verso il Carpegna, in cima alle Balze dove nascono il Marecchia, che si butta di qua, e il Tevere, che si butta di là. Lasciatelo andare. Le donne si faranno il segno della croce al suo passaggio: quanta fatica, povero ragazzo. E gli uomini daranno su con la voce battendo il pugno sul tavolaccio di legno della vecchia osteria di campagna dicendo con orgoglio: «Quello è Pantani. Non vedete?».
Sergio Neri