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Alle sette del mattino grava sul Deportivo una leggera foschia. Francesco si scalda al rullo di Casola

Troppo bassa la temperatura, troppo alta l’umidità ma il campione freme. Martini dà il benvenuto a Bearzot

Didascalia foto

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Alle sette del mattino di giovedì 19 gennaio 1983 gravava su Città del Messico una leggera foschia. Forse era smog. L’umidità era piuttosto alta e la temperatura era di soli nove gradi. Al Deportivo non c’era nessuno quando giunse il gruppo di Moser con Francesco impaziente di scendere in pista. Casola fu lesto a mettere in moto il suo trabiccolo e Moser fu molto rapido nell’aggirare il rullo. Il campione indossava una tuta di colore grigio perla che gli copriva braccia e gambe. Calzava un caschetto tradizionale sul quale aveva steso una cuffia simile a quella dei chirurghi in sala operatoria.
Il meccanico, Edoardo Fucacci, lavorava con palese tensione nel suo angolo intorno a strumenti preziosi.

Dall’Italia erano giunte altre due ruote lenticolari più leggere ma non c’era il tempo di collaudarle. Durante la notte Fucacci aveva lavorato febbrilmente per togliere il masticone ai cerchi e sostituirlo con una sostanza che si seccasse con più rapidità. Aveva percorso tutto il Messico per trovare il solvente e alla fine aveva risolto con acqua di colonia e un gran lavoro di gomito. Così aveva fatto l’alba senza dormire.

Al centro del prato, non lontano dalla linea di partenza, alle otto era già pronta l’apparecchiatura necessaria per computerizzare il viaggio di Francesco. La macchina era anch’essa impaziente di iniziare il suo frenetico lavoro di sintesi ed elaborazione dei dati: Moser avrebbe spinto un rapporto del 56×15, pari ad uno sviluppo di metri 8,105 per ogni pedalata. Merckx aveva spinto un 52×14, pari ad uno sviluppo leggermente inferiore, di metri 7,93. La temperatura saliva gradualmente ma lentamente. Alle otto meno dieci era di nove gradi.

Alle otto in punto Moser vide, girando al rullo di Casola, un gruppo di persone avvicinarsi alla pista. Erano i giornalisti italiani appena giunti a Città del Messico. Pur frastornati dal forte cambiamento di fuso, erano accorsi al Deportivo ove Moser averebbe ufficialmente attaccato i primati dei cinque, dei dieci e dei venti chilometri. Il secondo e il terzo detenuti da Merckx. Ma già in aereo i medici dell’equipe Enervit, Tredici e Arcelli, avevano fatto capire che se il risultato fosse stato soddisfacente, Moser avrebbe deciso dal sellino di proseguire. Una sola domanda era stata posta ai medici.Visto che Merckx era partito fortissimo e che poi aveva accusato una inquietante flessione, per battere i record iniziali Moser deve partire ancora più forte. Come può sostenere, poi, il peso dell’intera prova?

Questa domanda testimonia dell’apprensione di tutti gli addetti ai lavori. Nessuno in Italia credeva che Moser sarebbe stato capace di fare quello che poi, nel giro d’un paio d’ore, ha fatto destando stupore immenso in tutto il mondo.

Alle nove e un quarto la temperatura era di 11 gradi. Ancora poco. E il tasso di umidità era del 1 per cento. Ancora toppo alto. Le condizioni ottimali per partire erano queste: temperatura a 18 gradi e umidità non più alta del 50 per cento. C’era dunque da aspettare ancora.

Ma il vento incominciava a farsi sentire. Leggere folate imponevano a tratti velocissimi giri all’anemometro e gonfiavano le batteria sui pennoni. Moser affrontava un test di Conconi e l’esito era palesemente negativo. Il cuore tradiva un affaticamento superiore alla resa del fisico. Segno che l’equilibrio voluto era ancora lontano. Colpevole la temperatura ancora troppo bassa. E anche l’umidità.

La pista era invece in condizioni perfette. La fascia di settanta centimetri ricoperta di resina per una soddisfacente levigatura del fondo ospitava il campione in attesa del momento più voluto e crudele della sua vita. Alle 9,30 Moser scendeva e passava ai massaggi di Gamberini sotto gli occhi commossi di Alfredo Martini il quale con Bearzot al fianco faceva idealmente gli onori di casa.

I due galantuomini vivevano in pieno l’impresa avventura di Moser il quale sentiva sulle masse muscolari già calde la mano lieve di Gamberini e spiava da una fessura dell’androne il vento. Fremeva e temeva che l’ora felice passasse.

Alle dieci meno un quarto Moser tornava a girare. Era pronto anche se una tuta nera di lana leggera copriva il suo body allacciato di dietro. Il body gli copriva braccia e gambe ma sulla macchina era evidente la splendida condizione di Moser peraltro confermata dal suo massaggiatore: «Gli sento un muscolo carico, potente, pieno. Non c’è dubbio che farà qualcosa di grande”.

L’euforia (o qualcosa di più) aveva travolto tutti gli uomini del clan compresi i tradizionali addetti ai lavori, cioè il massaggiatore e il meccanico. Più che la scienza presente intorno al campione era l’uomo stesso che li aveva conquistati e travolti.

Da tre mesi Moser lavorava con l’entusiasmo di un bambino felice e adesso cercava da professionista di rango il premio d’una abnegazione totale. Dal 29 dicembre viveva a Città del Messico, in una piccola villetta con giardino, insieme alla moglie Carla, alla piccola Francesca, al massaggiatore Gamberini accompagnato dalla moglie (cuoca romagnola del gruppo) e un cagnolino. Alle dieci Moser faceva un nuovo test Conconi. Alcuni giri spinti forte e questa volta il rapporto pulsazioni-fatica era soddisfacente. Il vento cresceva di tanto in tanto, con folate improvvise che però si quietavano subito e la temperatura era quasi giunta ai valori voluti.

Moser sfilava la tuta e restava in perfetto assetto di corsa. Girava da solo e mostrava, nella pedalata, una potenza molto convincente. La bicicletta, pur sgraziata, diventava un trespolo elegante in quel complesso di linea splendidamente filante. Cromata con una velatura (silicone) d’un grigio azzurrino la bicicletta era splendida, anzi. E Moser, assiso sul sellino come sul trono di un improvviso potere, la domava con una ferma presa del manubrio a corna di vacca. Anche in quella presa Moser testimoniava una potenza totale. E il volto, ancorché sereno, esprimeva la durezza e la grinta già viste in certe albe alla periferia di Parigi, prima del viaggio crudele verso Roubaix.

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